sabato 27 agosto 2011

ANCORA COMMENTI E QUERELLE SUL "SEME D'ARANCIA"


UN AUSPICIO: CHE IL SEME D'ARANCIA NON SIA IL SEME DELLA DISCORDIA

Poichè , intorno al "Seme d'arancia", la polemica suscitata dalla prospettiva del suo spostamento non cessa,
barcellonablog, che ha già espresso il proprio parere su quanto sta avvenendo, avendo l'opportunità di ospitare commenti diversi,
con tutto il rispetto per il pensiero altrui ne coglie l'occasione , avvertendo però che qui non è consentita la presentazione di scritti che travalichino il buon senso e l'educazione. Per cui ogni e qualsiasi commento, prima di essere reso noto, sarà valutato e, se il caso lo richiederà, verrà inesorabilmente cestinato.

Intanto rendiamo note due lettere:

UNA RIFLESSIONE DI ORAZIO CALAMUNERI


"In merito alla polemica sul “Seme d’Arancia” circa l’ubicazione, preciso di essere d’accordo che il “seme” è una bella originale opera ideata con un ingegno che solo gli artisti di grossa caratura culturale sanno inventare. E il nostro concittadino Emilio Isgrò è tutto questo. Il “seme” è la vita che affonda le proprie radici in un settore importante della nostra economia, il settore agrumicolo dove si svolgevano diverse fasi di lavorazione impegnando nella coltivazione braccianti agricoli, “zappatori”, rimondatori , potatori e raccoglitori. Poi il trasporto nei magazzini per la lavorazione e la trasformazione e qui vi lavoravano “cernitrici”, impaccatrici, cavatrici, muratori (addetti alla costruzione di caldaie per bollire il succo di limone che aveva mercato in Italia e all’estero, e la caldaia si costruiva con mattoni, calce e mauto (terra rossa argillosa), e rastrellisti (nel senso che scavavano con il rastrello gli agrumi) e dopo la spremuta diventava “pastazzu”, cibo per animali da ingrasso. Il fatto che Isgrò si sia ricordato di questi lavori e di questo settore, sintetizzato magnificamente con un seme ingrandito 9000 volte, oltre che geniale è anche piacevole perché ricorda un tratto di storia basata sull’agricoltura e su cui ruotavano punte del 60% della manodopera barcellonese. La cosa più importante dell’opera di Emilio Isgrò è ricordare tutto questo e in questo è riuscito. Per l’ubicazione metro più metro meno non significa un bel niente. Non sono d’accordo invece quando si dice che il Seme d’Arancia “rappresenta l’emblema della rinascita civile e morale di un popolo (quello barcellonese) di una città un tempo florida nel commercio degli agrumi e dei derivati, che dalla vecchia stazione partivano per i mercati del Nord”. Semmai il Seme d’Arancia rappresenta l’emblema della fatica, della sofferenza, della miseria più nera, delle mortificazioni e delle umiliazioni che i lavoratori addetti nel settore pativano. Infatti si lavorava anche 15 ore al giorno, quasi tutti a nero, senza bagni e il punto dove si soddisfavano i bisogni fisiologici era orrendo, e i caporali che trattavano i lavoratori come schiavi. E infine con i bassi salari che si percepivano non si riusciva nemmeno a mangiare, si lavorava con i vestiti laceri e si cantava la visilla, un lamento vero di sofferenza. “Un tempo florido” si ma solo per alcuni che si sono arricchiti a dismisura, ma per i lavoratori addetti dell’epoca (fino agli anni 70) sono stati tempi durissimi. Il “seme” per me rappresenta questo.

Orazio Calamuneri

UNA LUNGA LETTERA APERTA A EMILIO ISGRO', DI ANDREA ITALIANO


Egregio Artista,

le scrivo queste righe per rispondere idealmente alle lettere da lei indirizzate al Sindaco di Barcellona e pubblicate su “I Quaderni dell’Ora” in data 24/08/2011, che fanno capo alla ormai arcinota polemica estiva (così mi viene da chiamarla) sulla traslazione del Seme d’Arancia, polemica alimentata purtroppo più da aspiranti politici già in campo per la prossima campagna elettorale che dagli intellettuali, artisti, cittadini barcellonesi più volte tirati in causa.
In particolare, in risposta ai temi da Ella stessa sollevati con la lettera del 16 Agosto vorrei farle notare quanto segue.
1) Il riferimento ad Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy egregio curatore del Dizionario di Architettura, volume della “ Encyclopèdie Mèthodique” pubblicato tra il 1795 e il 1825, non può non essere condiviso da tutti, ormai, e non solo dai critici e dagli studiosi. Il concetto del monumento come “documento irripetibile della storia e dell’arte di un popolo che vive nel contesto urbano in cui è inserito” è entrato ormai di forza nella forma mentis “comune” anche se – a dir il vero- applicandolo alla lettera l’umanità sarebbe oggi priva (cito solo due esempi) di un pezzo pregiato del capolavoro michelangiolesco di Piazza Campidoglio come la statua equestre di Marco Aurelio (che tutti sappiamo era stata collocata nei secoli a Piazza San Giovanni) oppure della provvidenziale ricostruzione nel “Pergamon Museum” di Berlino dell’Altare di Zeus ed Atena che si trovava in origine in Asia Minore e che sicuramente oggi avrebbe fatto una fine simile ai famosi Buddha demoliti dai talebani. Ancora però, e lei questo lo sa benissimo, sull’assunto del De Quincy si è sovrapposta nel secondo Novecento la teoria di Eco dell’arte come “opera aperta”, aperta alla pluralità delle interpretazioni dei fruitori e dunque non più “sacra”, intangibile ed inamovibile come un monumento antico. Corollario alle tesi di Eco, tesi per la verità molto “limitate”, potrebbe essere che, una volta che l’opera d’arte è “data al mondo” dal suo creatore, questi non ha più niente da dire in merito, non gli appartiene più (anche se è vivente) ma appartiene alla società che la fruisce e che appunto perché “documento irripetibile della storia e dell’arte di un popolo che vive nel contesto urbano in cui è inserito” la vive in maniera diversa a seconda delle epoche e degli avvenimenti storici. Penso a questo perché, e lo scrivo in tutta fermezza, la società barcellonese ha sempre fruito “male” il Seme di fronte alla dismessa stazione, perché non più stazione (ecco il cambiamento di epoche e di avvenimenti storici) ma strada di fugace e distratto passaggio veicolare e quindi mai ha capito a fondo il senso che Lei ha voluto infondergli. Sono certo, invece, che potrebbe fruirlo meglio nel luogo dove vogliamo ricollocarlo, luogo deputato alla riflessione, all’incontro, all’identità. Per questi motivi, eminentemente culturali, e non certo per sotterfugi legali, credo che ogni ipotesi di ritiro dell’opera dal patrimonio comunale/collettivo e l’affidamento – tramite la magistratura- a qualsiasi ente, fondazione o chicchessia (così come ho visto scritto sui quotidiani) sia risibile, culturalmente impercorribile (qui non si tratta del “diritto d’autore” ma del diritto sovrano di una comunità a rimodulare in meglio la propria città) od anzi deprecabile. Detto questo, e torniamo alla sua citazione, credo che essa debba essere decisamente ripensata; infatti il Nostro monumento, sono sicuro, giammai perderà lo status di “documento irripetibile della storia e dell’arte di un popolo” e soprattutto mai e poi mai verrà snaturato dal “contesto urbano in cui è inserito” in quanto lo spostamento di qualche decina di metri verso l’edificio già scalo-merci (lo scalo-merci da dove materialmente partivano “i treni carichi d’arance e di essenze per il Nord” ) non comprometterebbe affatto il contesto socio-culturale in cui Lei lo ha genialmente inserito, anzi – se mi permette- ne accentuerà maggiormente il senso ed il significato (tenuto conto che il Seme, nella sua nuova collocazione, verrà adeguatamente segnalato, protetto, valorizzato e reso fruibile anche didatticamente).
2) Mi spiace dissentire dalle sue parole perché il Seme, nella sua nuova collocazione, non sarà affatto un “monumento esornativo o celebrativo” più di quanto può esserlo già ora (mi scusi il gioco di parole, da lei tanto amato, ma il monumento non è sempre celebrativo anche quando vuole essere anticelebrativo?). Anzi, libero da quinte teatrali o da sfondi retorici come quelle attuali, si staglierà prepotentemente nell’ambiente circostante a significare ciò che Lei ha pensato: una “Poesia Visiva” che per niente auto-referenziale (e non è questo il peccato mortale dell’arte contemporanea sempre lontana da tutto e da tutti?) identifica ciò che è stata (e ancora continua ad essere) la nostra città, operosa, produttiva, generosa “e a volte ingenua”, aristocratica e plebea – per dirla con Consolo – grande e piccola al tempo stesso, mai banale. Ancora, non penso affatto che lo spostamento della sua opera, la nostra opera, di qualche metro ma sempre nello stesso contesto socio-culturale possa renderla “un’opera di puro abbellimento”; tutt’altro. Giganteggerà nella sua imponente mole finalmente restituita alla sua reale volumetria, significherà ancora maggiormente (con l’essenzialità di una poesia cattafiana) il concetto da Lei espresso, darà a tutti la possibilità di guardarla per quello che davvero è, e non soltanto come uno spartitraffico da imbrattare senza ritegno (come purtroppo fin’ora è stato fatto senza che nessuno se ne preoccupasse più di tanto!).
3) Dispiace leggere che Lei continui a sottolineare l’aspetto prospettico dell’installazione, considerandolo addirittura “il reale valore inventivo”. Ciò non rientra nella concezione del monumento rinascimentale, esornativo e decorativo che in precedenza contestava? Il senso del Seme è la sua “fuga prospettiva a cannocchiale” come un qualsiasi retorico monumento equestre oppure è l’Idea di una città, quasi una forma urbis, oggettivazione del genius loci barcellonese? Sono sicuro che a quest’ultimo pensiero Lei si riferiva e non piuttosto “alla prospettiva a cannocchiale”, altrimenti al Seme si sarebbe potuto sostituire qualsiasi totem (un bove, un “quattara”, una sigaretta gigante, un Ago e filo alla Claes Oldenburg) abbastanza grande da poterlo vedere da grandi distanze senza perderne il risultato ottico. Posso garantirle, infatti, che a distanza (e la via Roma è molto lunga) il Seme non dice più nulla (a meno che non si abbia, appunto, un cannocchiale) ma sembra un gigantesco segno senza identità. Sicuramente quella fuga prospettica abbellisce la via e la conclude a valle: ma è tutta una questione ottica, un abbellimento, quello stesso dato esornativo che lei vuole scongiurare. Ornamento e delitto, scriveva il buon Adolf Loos nel 1908 (anche un po’ esagerando): a questo si riferiva?
4) Stranisce davvero leggere che lei paventa che l’installazione verrà gettata nei pressi “di un giardino cinese o giapponese”. Il giardino “cinese o giapponese” più volte tirato in ballo, trattasi di un progetto pensato e donato dall’artista giapponese Hidetoshi Nagasawa (personalità- come la Sua- di altissima levatura internazionale e che lei conosce benissimo) e constante di una piantagione/oasi verde di piante autoctone in cui l’artista posizionerà qualche intervento secondo la sua maniera. Come vede, Barcellona si apre coraggiosamente all’arte contemporanea, e questo non può se non fare piacere ed onore a tutti i barcellonesi, specie a quelli come Lei che vivono di arte e rappresentano pienamente la contemporaneità. Per tornare al Seme, sono sicuro che esso non verrà confuso con le installazioni dell’artista giapponese, i linguaggi saranno ben distinti, non penso che i progettisti abbiano l’intenzione di formare un museo a cielo aperto; ma verrà posizionato a debita distanza proprio all’entrata del nuovo parco urbano, giusto perché i fruitori apprezzino appieno (ed in primis) la sua opera e la sua creatività.
5) Fondamentale è stato il suo contributo alla restituzione alla cittadinanza della piazza Stazione. Grazie al suo dono si è intrapreso un cammino di recupero e rivalutazione dei luoghi che già dalla fine degli anni 80 versavano nel degrado più assoluto. Il cammino, finalmente, sta arrivando al capolinea. Il Seme è il punto focale dell’intervento e per questo, se Lei -magari abbandonando lo spirito polemico, iconoclasta e “cancellatore” che giustamente la contraddistingue (e ne siamo fieri)- volesse contribuire con decisione ad una perfetta ricollocazione del monumento (di cui sappiamo che il piedistallo, la scritta, il giardinetto di arance amare, l’oasi in erba, sono parti integranti ed inscindibili!) tutti noi cittadini arriveremo in breve tempo a godere di un complesso ecologico-monumentale-urbano di grande utilità e pregio, funzione non solo ludica e ricreativa ma sociale e culturale.

Concludo questa lettera (scritta da un cittadino che – pure senza alcun interesse né vantaggio particolare- è parte in causa appunto perché cittadino di Barcellona e ci tiene ad avere una città bella, considerata positivamente, più vivibile) con l’esortazione a riconsiderare l’intervento con lo stesso occhio artistico e propositivo del 1998 e non prestare il fiato a certi “venticelli” nostrani che stanno tentando di avere nuova forza sfruttando questo polverone ma che alla fine altro non fanno se non nuocere all’immagine di Barcellona al cospetto della nazione tutta. Come se già i fatti delittuosi e problematici di questi ultimi anni non abbiano nuociuto abbastanza.

Distinti saluti
Andrea Italiano

1 commento:

Sebastiano ha detto...

IL degrado della città di Barcellona. “E' sotto gli occhi di tutti. Non vi è quartiere che ne è esente. Giardini abbandonati, sporcizia ovunque. - Uno stato di abbandono intollerabile per una Città come Barcellona. Vi sono poi addirittura quartieri che stanno morendo. “In tutti i quartieri della città c’è una carenza di sicurezza assoluta –
“La città è amministrata da una classe politica di incapaci . Avrebbe bisogno di scelte importanti in relazione alla sicurezza, alle grandi opere, alla viabilità. Ma quelli che ci amministrano sanno solo vivere alla giornata. Non hanno capacità progettuali di ampio respiro.

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