Ogni interruzione di gravidanza pone un problema che non può essere estraneo alla valutazione del destino del feto che viene estratto nel corso dell’intervento. Si tratta sempre di un neonato che, pur in estrema prematurità, va trattato come persona in condizioni di rischio e assistito adeguatamente... L’hanno affermato, in un documento congiunto, i direttori delle cliniche di Ostetricia e Ginecologia delle facoltà di Medicina delle università romane: La Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il Campus Biomedico. I professori sostengono che "con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e, quindi, all'assistenza sanitaria". Di fatto nel caso in cui un feto nasca vivo dopo un'interruzione di gravidanza, il neonatologo deve intervenire per rianimarlo, "anche se la madre è contraria, perché prevale l'interesse del neonato". "L'attività rianimatoria esercitata alla nascita - si legge nel documento - dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell'Unità ed i genitori". Tuttavia, concludono i cattedratici, "se ci si rendesse conto dell'inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare a ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico". Statisticamente, un bambino nato alla 21esima settimana non sopravvive, ma già a partire dalla 22esima ha tra il 14 e il 26% di possibilità". Salgono le aspettative di vita dalla 23esima settimana. Oggi rispetto a dieci anni fa le aspettative di sopravvivenza sono migliori, tuttavia il problema dell’assistenza resta legato anche al fattore crescita del neonato e ai possibili rischi d’eventuale disabilità. Alcuni genitori, per questo motivo, preferiscono addirittura che i loro bimbi non vengano assistiti.
sabato 2 febbraio 2008
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